di Francesca Palumbo
Il tema è quello della rivincita, di una qualche forma di risarcimento (per quanto indubbiamente violento) rispetto a una certa aristocrazia, a quei ricchi senza merito, possibilmente fatui, annoiati, e persino privi di un qualche pur minimo talento.
Sto parlando della intrigantissima serie di Ripley, perfino più bella del libro da cui è tratta, sia per l’estetica, che per l’uso del B/N, che per la valorizzazione sapiente, da parte americana, del patrimonio artistico italiano.
Super super bravo Andrew Scott (attore protagonista, che va ricordato anche per una delle più coinvolgenti interpretazioni teatrali dell’Amleto,-cercate il suo To be or not to be su youtube: pura goduria) e la cui marmorea eppur dolorante mimica facciale riesce a raccontare molto più di mille attendibili espressioni. E altrettanto straordinario Robert Elswitt, direttore della fotografia, non più tanto giovane eppure immensamente moderno, maestro nell’uso della luce nel senso più assolutamente Heideggeriano quanto Caravaggesco.
Prevalgono i temi dell’ambiguità, della verità, dell’enigma e della colpa. Tante statue (e perfino un gatto, ‘Lucio’) fanno da testimoni muti degli eventi, e poi le scale, tante scale così kafkiane (vedi Il Castello, e il Processo) e gli spazi senza uscita di Escher. Tutto risulta così potentemente magnifico, austero, elegante e solenne.
E la bellezza/potere degli oggetti; la Mont Blanc, i raffinati mocassini, l’anello, l’accendino, il profumo, che sembrano rubati a una delle più note e meravigliose ‘liste’ poetiche borgesiane (vedi Le cose). Insomma, un prodotto perfetto, ben calibrato, genialmente concepito e rimodulato, riplasmato sul sempre eterno tema del doppio e dell’ambiguità del nostro essere (Wilde, Stevenson, Poe,…), sugli abissi dell’invidia e del possesso (come in un’altra serie vista sempre su Netflix: ‘Saltburn’, che però non mi è piaciuta affatto e che ho trovato esageratamente/inutilmente perturbante). Ma la cosa bella è che più segui le vicende di Ripley, più sei progressivamente portato a tifare per lui, perché è un personaggio mastodontico e complesso, dolente e drammaticamente credibile, e denso di una profondità nera, proprio come le acque scure dei fondali che lo tormentano.
Paradossalmente insomma, Ripley diventa man mano un personaggio amabile…ma in fondo anche il commissario lo è, e si rivela così prodigiosa e funzionante questa dicotomia tra giustizia e misfatto, perennemente giocata su piani lunghi e tempi lenti, morbidi e pacati, laddove invece sotto la punta dell’iceberg è in atto il vero inferno dell’io. Non voglio aggiungere altro, per non rischiare di dire troppo. Dico solo che ho molto apprezzato anche la recitazione di Margherita Buy, un po’ più nuova rispetto ai ruoli soliti che interpreta. Molta brava davvero. In sintesi, se non l’avete già vista, non perdete questa mini-serie, non perdetevi Ripley. Non vi deluderà.