Regia di Adam Wingard
con Rebecca Hall, Bryan Tyree Henry, Dan Stevens
In sala dal 28 marzo
Chissà dove riusciranno ad arrivare i kolossal, perché sembra che mai niente sia sufficientemente grande, sufficientemente sconvolgente, sufficientemente catastrofico. E neppure sufficientemente spiazzante. Fedele al consiglio “Lasciate ogni verosimiglianza o voi che entrate”, mi sono preparata alla visione del nuovo episodio con protagonisti Godzilla e King Kong, seguito di Godzilla vs. Kong.
La parola d’ordine per i produttori dei disaster movies et similia è “non abbiate mai timore di esagerare e ignorate tutti i limiti, soprattutto quelli dettati dal buon senso e dalla misura”.
Un gigante non bastava e già ne avevamo in scena due, nel seguito si schiaccia ancor di più l’acceleratore: ci sono infatti un King Kong buono e uno cattivo, con una sfilza di sudditi, poi un secondo simil Godzilla ma perfido, non tanto per colpa sua ma perché incattivito dalla prigionia. E ancora non basta, qua e là irrompono Titani di varie gentilezze che hanno la forma di serpenti giganti o di draghi e una “madre” invece buona, una sorta di divinità arcaica che ha le sembianze di una vespa gigante o forse di una libellula, bella, grazie a buoni effetti speciali. Voi vi sareste sentiti appagati, i produttori no, perché regalano allo spettatore anche un mondo preistorico, nella Terra cava (che sta nelle viscere del nostro pianeta) molto somigliante a Jurassic Park (infatti Spielberg ha apprezzato) abitata da creature di tutti i tipi, comprese le piante carnivore. Ci sarebbe anche una sceneggiatura, ma conta poco, quello che importa sono le scene sorprendenti e la curiosità di aspettare l’entrata in scena del prossimo mostro. Catastrofico e comico al tempo stesso, il film è farcito come un dolce siciliano e per apprezzarlo (possibile divertirsi) occorre mettere da parte il senso critico e stare al gioco. Tanto per dire ci sono scene in cui King Kong è sì grande ma nell’ordine di qualche metro, tant’è vero che la bimba, unica sopravvissuta della stirpe sotterranea, può accarezzargli la mano, in altre inquadrature (ad esempio uno scontro epocale fra i grattacieli di Rio de Janeiro) se non è alto almeno 150 metri niente ha più senso. Eppure anche i mostri filmici avevano dimensioni stabilite, almeno a dar retta ai sacri testi che indicani 90 metri per King Kong e 130 per Godzilla. Ma il regista non ha optato per la versione filologica. Cosa accade ancora in questo roboante filmone? Che Godzilla si accoccola nel Colosseo e finché nessuno gli lancia segnali di aiuto resta sereno a dormire, ben tollerato dalla popolazione che già (ma non credo che il regista lo sappia) si era abituato al marziano di Ennio Flaiano. King Kong invece, tornato nella Terra cava e costretto a difendersi da nemici di vario tipo, si sente malissimo per colpa di un dente canaglia. Quindi che fa? Attraverso una porta d’ingresso (presenti in ogni storia dell’altro mondo che si rispetti) arriva sulla terra dove un temerario veterinario lo cura, sostituendo il dente dolente con uno in metallo. Poco virile per un gorillone abituato alle battaglie, infatti gli altri scimmioni, quelli cattivi, lo prenderanno in giro. In questo groviglio c’è posto anche per le dolcezze umane, la scienziata è affettuosa madre adottiva della bimba, il veterinario è un hippy complottista di buon cuore e il reporter si spera accetti di non divulgare troppe immagini per preservare i mondi scoperti dallo sfruttamento. Insomma fra King Kong e Godzilla trova posto pure un cuore ecologista. Cosa volere di più?