Caterina è ricercatrice presso il Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale dell’Università di Napoli. Afferma che affermarsi professionalmente è dipende più dalla condizione sociale che da questioni di genere e, ancora, da come funzionano i ménage familiari; matrimoni e famiglie sono troppo spesso il luogo di coercizioni.
La nostra conoscenza, legata ad una comune amica, risale a qualche anno fa quando andai a trovarla nella sua bellissima dimora napoletana, un’oasi di tranquillità e pace dentro il caos del centro partenopeo. Molte opere di ascendenza paterna, una casa ricca di divertenti curiosità.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Figlia di architetti, ma non sono stata incoraggiata nella scelta; invece mi hanno incoraggiata molto durante gli studi, tutte le volte in cui avevo bisogno che qualcuno mi dicesse che laurearsi in architettura avrebbe, poi, dato accesso a lavori molto diversi tra loro: l’idea che le scelte non debbano necessariamente essere conclusive mi ha sempre procurato sollievo. Invece, riguardo all’inizio degli studi è da dire che poco meno del 50% della mia classe del liceo si è iscritto ad architettura, credo che la responsabilità sia stata della nostra insegnante di storia dell’arte e italiano, anche lei figlia di un architetto. Mi ricordo la mattina in cui sono andata in segreteria per l’iscrizione; una mia compagna di classe – adesso lavoriamo nello stesso Dipartimento – è passata da casa mia anche se non l’aspettavo e, al citofono, mi ha detto “vieni che andiamo a iscriverci all’Università”, mi sono ritrovata a palazzo Gravina (la sede di architettura a Napoli) così, senza averci pensato più di tanto; da allora i miei più cari amici sanno che prima di citofonare è meglio fare un colpo di telefono.
No, architetta no! Mi fa pensare al seno, o peggio all’amputazione delle Amazzoni, oppure a Sant’Agata.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
Sarebbe meglio se si trattasse di creare spazi liberi e felici per persone felici. Non la pensano così quei committenti che cercano plusvalore o autocelebrazione, o entrambi. Il risultato è quello che vediamo nei centri urbani e nelle periferie del mondo.
Com’è maturata la tua scelta di dedicarti all’insegnamento universitario? E in particolare il tuo interesse per il design?
In conseguenza di quanto ho detto sull’architettura ho deciso di non progettare nulla che sia più grande di 5 centimetri; scherzi a parte, sono arrivata al design di prodotto attraverso la grafica, il passaggio nelle due dimensioni mi ha dato il coraggio di tornare ai piccoli volumi. In un immaginario futuro, forse, tornerò agli spazi vivibili e percorribili. Quello che mi ha conquistato della grafica è l’alto livello di autarchia, la possibilità di controllare con facilità l’intero processo. Nella mia Flatlandia privata ho cercato la ristrettezza di mezzi e la libertà mentale, ma a proposito di Edwin A. Abbott, è proprio lui che spiega bene il divario uomo/donna, quando racconta che le donne parlano di amore, giustizia, speranza, pietà e dovere, mentre gli uomini, nel loro gergo, traducono l’amore in “anticipazione di vantaggi” e il dovere in “convenienza”; comunque credo che sia più opportuno parlare di maschile e femminile, invece che di donne e uomini.
Cos’è per te la bellezza?
La bellezza progettata è una buona idea che prende la forma appropriata perché chi ne entra in contatto provi benessere o, in alternativa, senta che si è risvegliato un neurone assopito: quindi la bellezza è ciò che procura benessere oppure la consapevolezza di un pensiero nuovo. Inoltre dovrebbe anche durare un tempo abbastanza lungo, ovvero essere riconosciuta dai più come bellezza, nonostante il passare del tempo e l’alternarsi dei linguaggi; in qualche modo la bellezza delle opere non prevede la sfioritura del risultato.
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
Boh! Non so proprio rispondere a questa domanda; quando guardo una architettura, oppure una qualsiasi opera non vorrei mai dovermi accorgere se è stata una donna o un uomo a progettarla; a volte mi capita con la letteratura, ci sono alcuni testi in cui riconosco la mano femminile, ma la cosa di solito mi disturba. Invece credo che sia grande il testo scritto da Patricia Highsmith, Piccoli racconti di misoginia, anche e proprio perché scritto da una donna.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne?
Se lo è dipende più dalla condizione sociale che da questioni di genere e, ancora, da come funzionano i ménage familiari; matrimoni e famiglie sono troppo spesso il luogo di coercizioni.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
No, almeno non perché donna.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Non mi sembra diversa da quella degli uomini: si tratta di affari e si progettano affari, ora la donna in affari si comporta come un uomo, così accade anche per chiunque sia a capo di un governo. Da cento anni l’equivoco femminista spinge verso la parità dei diritti, cosa ovviamente giusta ma che non deve sminuire il valore delle differenze, perché riduce la differenza alla medesima funzione e aggiunge, ad esempio, alla follia della guerra l’oscenità della partecipazione delle donne. La parità non è nella omologazione, ma nel rispetto reciproco; la differenza è preziosa. Nel Mediterraneo dell’antichità la differenza conferiva maggior prestigio alle donne, perché l’intera società era orientata alla cultura femminile. L’uomo era esploratore e guerriero, ma quando tornava a casa, tornava nella casa della sposa. L’arte, la bellezza erano prerogative della donna, vero capo di casa e costruttrice di ordine e di convivenza pacifica. Era un ritorno a un mondo felice e prospero negli spazi adeguati, salvo l’esplodere della tragedia, ma quella è un’altra storia.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro e nel quotidiano, con la tecnologia?
Medio, medio buono; continuo a non amare le conversazioni telefoniche, ma era lo stesso quando si usava il telefono con la rotella, oppure al tempo dei gettoni. Poiché le prime cose le ho scritte a macchina oppure a mano, mi sono accorta che il computer cambia, per me in meglio, il modo di scrivere, soprattutto perché non costringe alla sequenzialità forzata dei pensieri, mi sembra che un testo diventi migliore se lo si può montare e smontare più volte, come si fa con il cinema, e il computer è perfetto per questo. Al di là della scrittura, uso due/tre programmi di grafica e di impaginazione, apprezzo internet ogni giorno di più e non rischio di cercare la gratificazione istantanea nei social, ma ne riconosco il valore; ad esempio con gli studenti l’uso dei social è davvero utile, ma sto parlando dell’ormai vecchio facebook, non mi sono ancora evoluta. Quello che detesto è l’obsolescenza programmata e vale per i PC, quanto per la lavatrice.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Non delego nulla, il mio ruolo è quello del ricercatore e, dunque, non è prevista alcuna delega; sono, invece, previste le collaborazioni, soprattutto per le tesi di laurea, e funzionano bene, perché più punti di vista sono una ricchezza per gli studenti.
A quale tra le tue pubblicazioni sei più legata?
Dal momento che non so ancora nulla della prossima pubblicazione, ti dico all’ultima; è uno studio sullo Stile Olivetti, pubblicato in collaborazione con l’Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea, con l’editore Hapax; ci sono legata non solo perché è l’ultimo lavoro, è andato in stampa lo scorso dicembre, ma anche perché è un libro che non è destinato solo agli addetti ai lavori e credo che questo sia un gran merito per una pubblicazione, tanto più quando si lavora, come in questo caso, con materiali di archivio; io mi trovo in aula studenti che hanno genitori più giovani di me, sono ragazzi nati in questo secolo, e credo che sia importante trovare i codici linguistici appropriati per farli avvicinare e appassionare alla nostra storia, questo libro è stato fatto prestando attenzione anche a loro
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura o design?
Sì, certo. Consiglierei a una ragazza di iscriversi ad architettura o a design, prima però, per mia curiosità, vorrei sapere perché ne ha voglia. Soprattutto, le consiglierei di imparare un’altra lingua e unire agli studi quella che una volta si chiamava “l’andare a bottega”; è vero che i percorsi di studio prevedono il tirocinio, ma si tratta di periodi molto brevi e tante cose si imparano solo facendole; sia in architettura sia per il design i processi di realizzazione sono determinanti, per cui quando dico “bottega” penso alla pratica in campo e non mi riferisco solamente alla possibilità di rubare con gli occhi affiancando bravi progettisti oppure alla grande fortuna di trovare un maestro, ma penso anche alle botteghe degli artigiani, alle fabbriche e, perché no, ai settori commerciali. Penso al fatto che bisogna avere consapevolezza e esperienza di tutta la filiera per progettare.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
L’oggetto è la radio Cubo-Brionvega, progetto di Marco Zanuso e Richard Sapper; adesso uso un modello con la spina, di colore bianco, quella a batteria non funziona più tanto bene è lì, muta, con tutto il suo bellissimo colore giallo. Riguardo a una sola architettura non saprei, ma come architetto Carlo Scarpa che con la Brionvega c’entra.
Come riesci a conciliare la tua attività di ricerca con l’impegno professionale dentro l’Università?
A volte meglio, altre peggio; dipende da cosa faccio prevalere: le circostanze, oppure le ossessioni. Negli ultimi anni l’ossessione è stata la storia dei protagonisti, dei prodotti, delle comunicazioni, dei negozi e delle mostre della Olivetti; questa ricerca non ha mai trovato spazio nei corsi che mi sono stati affidati, perché le discipline prevedevano altro. Altre volte, invece, prevalgono le circostanze e allora mi metto a ricercare su quanto può essere, poi, ricondotto all’insegnamento, ad esempio l’anno scorso ho iniziato ad interessarmi agli archivi di moda così, insieme a studenti e colleghi, abbiamo fatto un bel lavoro, compresa una mostra sugli archivi della Fondazione Mele, della sartoria Cilento e della Fondazione Mondragone.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Sigarette, una risma di carta bianca A4 e una penna Pilot 0,4 e tanta, tanta pazienza.
Una buona regola che ti sei data?
Le mie buone regole non riguardano il lavoro, anzi sì, una buona regola è quella di lavorare sempre senza ansia da prestazione, l’altra è di fare solo ciò che mi dà piacere e, quando non è possibile, di farmi piacere ciò che faccio, perché così riesce decisamente meglio e il risultato finale ripaga la mancanza di motivazione iniziale.
Poi c’è una buona regola che riguarda la vita più in generale: quella della Peonia che mai e poi mai vuole essere confusa con un Oleandro! Hai fatto caso al fatto che gli oleandri sono utilizzati in autostrada perché ritenuti tanto forti da poter resistere, stanno lì tra smog e rumore e ricevono il minimo indispensabile delle cure; la peonia, invece, fiorisce per un periodo molto breve, si riposa per molti mesi all’anno, mentre le vengono dedicate le giuste cure in attesa della sua fioritura; certo qualche fiore viene tagliato per finire nei vasi dei salotti, ma si tratta di un omaggio che la pianta può permettersi di donare.
Il tuo working dress?
Pantaloni e scarpe basse. Molto, troppo nero anche per me!
Città o campagna?
Città! La campagna mi agita. In ogni caso città costiere, al mare non vorrei mai rinunciare, ma ho problemi con l’Adriatico, ogni volta che il sole tramonta a terra e non sull’acqua mi procura tristezza.
La vasca da bagno: con sigarette, musica, più fumetti che libri e qualcosa da bere.
Ultimo viaggio fatto?
Stoccolma e Oslo, ma il prossimo sarà in Sicilia, non ho il tempo per andare più a sud
Il tuo difetto maggiore?
La diffidenza, ma, ovviamente, non sono convinta che sia un difetto.
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
Il fatto che per quanto mi possa capitare di stare male so sempre che, poi, starò bene, bene davvero.
Un tuo rimpianto?
Oggi nessuno, a differenza di quanto la logica possa suggerire, credo che i rimpianti siano qualcosa che riguarda la gioventù e non solo perché crescendo si perde la memoria, ma perché la percezione del tempo cambia, trova un suo equilibrio e molta gioia nel considerare il presente come il momento più prezioso. Sono così felice del fatto che i cinquant’anni mi abbiano portato a concentrarmi molto sul presente che è un tempo veloce e nella velocità non c’è spazio per i rimpianti, solo per i desideri.
Work in progress …?
In questa settimana iniziano i corsi, insegno al Corso di Design per la Moda, quindi devo studiare e, ancora, studiare: ho deciso di dedicare una piccola parte del laboratorio al rapporto tra cinema e moda, credo che inizierò con una cosa leggera: la prima collezione di Alessandro Michele per Gucci, perché si è ispirato al film Royal Tenenbaums. Wes Anderson è uno dei miei registi preferiti, per non parlare di quanto mi piace Owen Wilson.