Fino a che punto è lecito suggerire di limitare i contenuti online per prevenire i rischi della rete?
I confini della comunicazione e dei rapporti tra individui, per lo più estranei, si sono dilatati a tal punto da sembrare invisibili.
È una realtà, non si può negare. Sparita quella barriera che consentiva a tutti noi di filtrare le informazioni e di “difenderci”, ci ritroviamo catapultati nel mondo virtuale senza paracadute.
È sempre più complesso – anche provandoci e desiderandolo – alzare un muro tra noi e gli altri, nascondendo dietro una giustificabile diffidenza gli aspetti più intimi della nostra vita: condividiamo tutto, davvero tutto. Di certo, in un contesto sociale dai valori compromessi e che non sempre riesce a vivere in modo equilibrato le relazioni, queste scelte nascondono insidie.
Paradossalmente condividiamo più informazioni con chi potrebbe nuocerci che con un famigliare, a conferma del mito secondo il quale è molto più semplice confidare un problema ad uno sconosciuto che ad una persona fidata. Da donna, la paura più grande è tuttavia quella di subire le attenzioni indesiderate di un uomo, di ricevere commenti sgarbati e offensivi.
Immagino sia una paura condivisa da tante donne, ma fino a che punto è lecito suggerire di limitare i contenuti online per prevenire i rischi della rete? Al di là delle considerazioni sulla libertà di condividere quel che si vuole e con chi si vuole, sarebbe utile fare un passo indietro, e riflettere sul valore che diamo oggi alla nostra privacy. Bisogna fare i conti con una verità, e cioè che abbiamo rinunciato ad una porzione della nostra intimità il giorno in cui abbiamo inserito la nostra prima password in rete.
È dura ammetterlo, ma è come trovarsi nel proprio bagno ed essere spiati dal famoso “buco” della serratura. Non si parla di modificare le proprie abitudini per eliminare una scocciatura, ma di ripristinare quello spazio personale che quotidianamente consentiamo a chiunque o quasi di calpestare come uno zerbino davanti alla porta di casa. Vuol dire, cioè, bere una tazza di tè senza sentirsi in dovere di fotografarla e postarla in rete: si può fare, ma resta una scelta, e non un imperativo finalizzato a dimostrare che si sta vivendo, che si esiste.
Per cadere nella rete senza farsi male, bisogna sostanzialmente esserne padroni per quanto possibile: cedere meno alla tentazione di aggiungere chiunque tra gli amici; non coinvolgere i minori; limitare la quantità di informazioni personali alla portata di chiunque, e puntare sulla qualità. Occorre condividere contenuti che contribuiscano a rendere il web un luogo stimolante, e non repressivo o discriminante.
Di recente l’argomento è tornato alla ribalda per significativi casi di bullismo e “vandalismo” online. Un video privato fatto circolare a tradimento su una chat può portare al suicidio, così come una foto inopportuna può compromettere anche la più solida delle reputazioni. Lo spazio cybernetico è così ampio da non poter essere confinato neanche dalla migliore delle politiche, sebbene esse siano utili, doverose e significative. Occorre imparare ad autolimitarsi. Bisogna re-imparare ad amare il proprio spazio, e ad utilizzare la rete per quanto può realmente offrirci: non un’ombra delle relazioni che potremmo vivere, ma più una concreta possibilità di realizzazione personale.
Laureata in Scienze Politiche e di Governo, mi occupo principalmente di diritti riproduttivi, e in particolar modo di accesso alle pratiche abortive, e di violenza sulle donne. Sono stata per circa due anni operatrice presso un Centro di Primo Ascolto per vittime di violenza nel sud di Milano e mi interesso alla condizione della donna nelle aree dell’estremo oriente e sud asiatico.