“La paranza dei bambini”: un libro può salvare i baby boss da loro stessi?
di Valeria Benedetto
Dire paranza significa ricordare riti antichi, pescatori che con questa barca tipica, ormai in disuso, affidano la loro fortuna al mare. Ma, in gergo, la paranza evoca riti ben diversi da quelli dalla tradizione degli uomini di mare. Gruppi di fuoco legati alla camorra, alla ricerca di persone da uccidere, cosi come i marinai vanno in cerca di pesci da ingannare nelle reti.
Si, uccidere. Le “paranze” sono abili in questo. Il loro obiettivo è generare terrore e sottomissione in modo da ottenere il controllo del territorio e il dominio delle attività illegali: spaccio, mercato delle scommesse, usura, estorsione. Tutto sotto il sole, o meglio all’ombra, di Napoli.
Un potere che si conquista vicolo per vicolo, catturando nuove leve, pesci piccoli che nuotano senza direzione, senza prospettive di futuro, e che abboccano senza fatica all’amo del denaro facile, delle armi e del desiderio di onnipotenza. Sono solo adolescenti, ma capaci, nei mesi scorsi, a seminare il terrore con omicidi, “stese”, agguati ai danni di innocenti, spesso semplici “sagome” per provare il funzionamento delle armi. Già, perché questi ‘scugnizzielli’ imparano in fretta a maneggiare pistole semiautomatiche e AK-47.Inziano mirando finestre, cancelli, vetri delle auto e poi direttamente le testano per strada in sella ai loro motorini. Dentro l’alba giallognola,per le vie semideserte[…],gli scooter, uno dietro l’altro, gracchiavano in falsetto come fossero chierichetti in fila per la messa. Anche se si alleano con vecchi boss in declino, i loro modelli non sono solo i camorristi di vecchia data: inneggiano i terroristi ostentando le bandiere dell’isis opportunatamente tradotte in italiano e con i lori nomi scritti sopra. Hanno un’età compresa tra gli otto e i diciotto anni, ma l’efferatezza di criminali consumati con reati che spaziano dall’omicidio allo spaccio e all’ associazione camorristica. “Io per diventare bambino c’ho messo dieci anni, per spararti ci metto un secondo”.
In tutto, nI “paranzini” usciranno dal carcere quando saranno quarantenni. Vite bruciate, perdute forse irrimediabilmente. Eppure non se ne parla, o si descrive il fenomeno come collaterale, insito nella natura stessa delle organizzazioni mafiose che trovano nuovi adepti nelle loro stesse famiglie o negli strati meno abbienti della popolazione. È un errore, perché nella paranza sono coinvolti anche giovani appartenenti alla “classe media”, quella che lavora onestamente e che, si, è stata colpita dalla crisi, ma non al punto da ridursi in miseria. Eppure i figli schifano il lavoro onesto dei genitori, disprezzano la loro vita semplice, da pezzenti. “Pensavano ai portafogli smunti dei genitori che faticavano tutto il giorno… si sentivano più uomini dei loro padri” Vogliono i soldi facili e il potere, subito, perché il futuro non esiste, nemmeno ci pensano. “Oggi ci stammo, domani nun ce stammo. T’’o rricuorde?”
Qualcuno però deve pensarci. Non ci si può dimenticare che l’avvenire dell’Italia passa anche da qui, e che questi bambini saranno gli adulti di un domani non troppo lontano. Il problema è capire come sarà il domani, date le premesse di oggi. Non possiamo permetterci di non provare a migliorare la situazione, o perlomeno non possiamo continuare a chiedere gli occhi e a negare l’evidenza.
Ciò che sta succedendo a Napoli potrebbe succedere, e succede, in qualunque periferia, in qualunque quartiere disagiato senza opportunità, dove lo Stato non riesce o non vuole arrivare.
Ad arrivare sono invece le parole, autentiche e affilate come quelle dell’ultimo libro di Roberto Saviano, “La paranza dei bambini” una sorta di romanzo di formazione al contrario, dove maturare coincide con il marcire, diventando criminali. Dal volume sono state tratte le frasi in corsivo di cui sopra. Pur essendo di fantasia, sono purtroppo adattabili perfettamente alla realtà dai fatti.
A dieci anni da Gomorra, Saviano volge lo sguardo ai figli di un sistema in cui vince il più forte:sul lavoro vince chi è protetto, chi imbroglia, chi è “figlio di”. L’evasore batte l’imprenditore che cerca di rimanere sano, il corrotto sale al potere e non c’è giudizio in questo, il fine giustifica i mezzi agli occhi di questi ragazzini, i quali hanno una dimensione temporale inesistente, il futuro non esiste. Non c’è tempo per sogni e progetti, se la legge del sistema ragiona in questo modo a cosa potrà mai servire andare a scuola e studiare? Ad essere uno sfigato, un perdente con degli ideali forse, ma sicuramente senza soldi in tasca. I bambini della paranza non temono il carcere o la morte, perché sanno che l’unico modo per conquistare il potere è giocarsi tutto e subito. E la loro vita fa parte del gioco.
Roberto Saviano ha raccontato tutto questo, facendo immergere ancora una volta i suoi lettori senza bombole d’ossigeno nel mare oscuro di Napoli, dove bambini delinquenti non è un ossimoro. Ma cercando di far luce, è stato accusato di essere ossessionato dal buio, di tralasciare ciò che di buono si sta facendo nella città partenopea contro la criminalità organizzata per focalizzarsi ancora una volta nel raccontare corruzione e criminalità. Certamente alcuni passi avanti sono stati fatti, per crescita culturale e turistica, o di coscienza civile ma è sempre doveroso portare a galla la realtà per quella che è, senza cadere in consolatorie speranze facili.
Lo scrittore ha dedicato” La paranza dei bambini” ai ” morti colpevoli e alla loro innocenza” lasciando così inteso tra le righe la necessità di andare oltre alla questione penale relativa all’inchiesta che porta lo stesso nome del romanzo. “Nei quartieri dove c’è disagio, dove mancano opportunità e sogni, dove la politica mente, i ragazzi non hanno speranza. E parlerò alle madri, alle donne, sole in questo deserto. Creatrici di vita e, quindi, di futuro” ha voluto rimarcare Saviano, specificando l’importanza del ruolo femminile nella lotta alla mafia, ricordando anche che “creatrici di vita” non equivale a “creatrici di figli”. Creatrici di futuro, un futuro possibile solo continuando a parlare e analizzare quel che sta succedendo. Cercando di capire, senza retorica e con spirito critico, non solo come poter continuare a fare passi avanti ma, soprattutto, come cambiare passo. Senza filtri, senza paure. Perché la paura non serve ad evitare la morte, serve ad evitare la vita.
Valeria Benedetto – Studentessa di Economia e Commercio all’Università degli Studi di Torino, da sempre amo scrivere e raccontare il mondo che mi circonda. Sensibile ai problemi delle minoranze mi occupo principalmente di attualità, cultura e società e collaboro con varie testate online occupandomi di tematiche di genere e tutela dei diritti.