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    Dol's Magazine
    Home»Costume e società»Il corpo fatto a pezzi
    Costume e società

    Il corpo fatto a pezzi

    Simona MerianoBy Simona Meriano04/10/2016Nessun commento4 Mins Read
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    La forza del cannibalismo mediatico

    Il cannibalismo è un fenomeno agghiacciante che nell’immaginario collettivo suscita orrore, viene esiliato in una dimensione lontana, lontanissima, onirica e tribale.
    Ma la macellazione umana non è soltanto un corpo fatto a pezzi per essere mangiato: il cannibalismo è un’azione collettiva che ha una ricaduta di significato sull’intera comunità, un rituale attraverso il quale si acquisiscono energie vitali e si “neutralizza” chi potrebbe costituire una minaccia per la propria unità: cibarsi dell’altro significa sia renderlo innocuo, addomesticarlo, sia acquisire la sua forza, è la manifestazione di un impulso ambivalente, aggressivo e al contempo di attrazione.

    L’oscillazione tra il bisogno di separazione (affermazione di ciò che siamo rispetto all’altro) e il bisogno di intimità (spinta alla con-fusione con l’altro) insieme all’ossessione per il corpo può dare origine a comportamenti violenti in termini fisici, psicologici o attraverso mezzi virtuali. Nella violenza di genere c’è un evidente tentativo di annientare ciò che si desidera ma che non si possiede in modo assoluto.

    cannibalismo mediaticoQuando nella relazione tra maschile e femminile manca una sostanziale parità e la capacità di comunicare e di integrare le differenze, prevale la spinta alla prevaricazione: l’uso della forza da parte dell’uomo risponde al bisogno di affermare la propria identità e al contempo è la manifestazione violenta della volontà di controllo sul femminile.  anche se in modo illusorio e transitorio. Lo stupro e il femminicidio sono crimini con queste caratteristiche, che vengono consumati con l’intenzione di distruggere l’oggetto del desiderio.

    La simbologia del corpo fatto a pezzi non riguarda però esclusivamente il rapporto tra uomo e donna. Si ritrova in altre forme di violenza in cui il gruppo condanna la vittima prima di tutto con il giudizio, poi la “divora” pubblicamente annientandola come persona, come avviene per esempio negli episodi in cui il branco aggredisce e umilia chi è più debole, preso di mira per un tratto specifico della personalità o del corpo.

    Il cyberbullismo è una forma di antropofagia simbolica, mettere in rete le immagini “rubate”, fare a pezzi il corpo e condividerlo è diventato un modo abituale di comunicare, in cui i social hanno potere di giudizio su ciò che è bene e ciò che è male. La storia di Tiziana che si è tolta la vita perché non ha sopportato la gogna mediatica è un tragico esempio di cannibalismo simbolico in azione. Buttare il suo video hard in rete è stato come offrire un banchetto di carne umana al pubblico affamato, sadico e curioso. Il video è diventato virale, non tanto per il contenuto direi di poco conto, quanto per il piacere perverso di potersi impossessare senza essere visti di un pezzo di vita altrui.

    Si è parlato di istigazione al suicidio, della responsabilità dei motori di ricerca, di violazione della privacy, ma a rendere questa storia terrificante è stata la partecipazione sociale, il voyeurismo morboso che ha spinto la gente a cercare il video, a condividerlo, a commentarlo. Questo è davvero agghiacciante. Consumare il corpo nel gruppo virtuale evoca una violenza estrema, ed è questa violenza che annienta la vittima, più degli abusi fisici. Stupri filmati e condivisi su WhatsApp (caso emblematico è quello della ragazzina di 17 anni stuprata in discoteca e filmata dalle “amiche”), foto delle ex e video messi in rete, non sono soltanto l’azione sconsiderata di qualcuno. L’aspetto più sconvolgente di questo fenomeno è il gruppo virtuale che fa a pezzi la vittima e “se ne nutre” senza pietà. La forza distruttiva del cannibalismo mediatico è sempre più difficile da contenere, proprio per questa sua valenza collettiva, tanto che persino i corpi delle donne uccise diventano oggetto di giudizio prima che di compassione. La notizia è interessante se rivela la vita intima della vittima e a quel punto chiunque si sente in diritto di entrare attraverso quella singola immagine che viene offerta pubblicamente e che pubblicamente viene consumata.

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    Simona Meriano
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    Simona Meriano, nata a Torino nel 1970, antropologa, social worker e autrice, è impegnata da oltre 20 anni in progetti di empowerment femminile e di contrasto alla violenza, occupandosi in particolare di problematiche relative alla salute, alla migrazione e alla tutela dei diritti delle donne e dei bambini. Socia fondatrice dell’Associazione TAMPEP Torino nel 2001, è stata responsabile dei programmi di protezione sociale per le vittime della tratta e si è dedicata alla formazione di operatori socio-sanitari, mediatori interculturali, personale di polizia. Dopo alcuni anni vissuti a Bali, in Indonesia, è tornata in Italia e ha fondato nel 2016 l’Associazione “Le Ali di Wen - Women Empowerment Network”.

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