Non so se molti bambini qui in Palestina abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino.
RACHEL CORRIE
(1979 – 2003) di Andrea Zennaro, per Toponomastica femminile
Sono in Palestina da due settimane e un’ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo per me pensare a cosa sta succedendo qui quando mi siedo per scrivere alle persone care negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale verso il lusso. Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. […] Nessuno nella mia famiglia è stato colpito, mentre andava in macchina, da un missile sparato da una torre alla fine di una delle strade principali della mia città. Io ho una casa. Posso andare a vedere l’oceano. Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato, pesantemente armato, che aspetta a metà strada tra Mud Bay e il centro di Olympia a un checkpoint, con il potere di decidere se posso andarmene per i fatti miei e se posso tornare a casa quando ho finito.
Questa è la testimonianza di Rachel Corrie contenuta nell’ultima sua lettera alla madre datata 28 febbraio 2003. La ragazza, nata a Olympia (nello stato di Washington) il 10 aprile 1979, è una giovane pacifista, timida ma dal carattere forte, da sempre molto attenta alla causa palestinese.
Lo stato di Israele si è insediato in Medio-Oriente nel lontano 1948 e dal 1967 ha esteso i proprio confini occupando illegittimamente quasi tutti i territori palestinesi coltivabili: così facendo sono stati violati sia gli accordi internazionali che le ingiunzioni dell’ONU. Nei decenni successivi sono seguite ulteriori espansioni territoriali, tutte assai sanguinose. A oggi restano fuori dai confini israeliani soltanto la Cisgiordania (isolata da Israele tramite un muro con torri di guardia e checkpoint armati) e la Striscia di Gaza (un’area stretta ma popolatissima tenuta lsotto assedio dall’esercito israeliano).
Nel 2000 in Palestina scoppia per la seconda volta una sollevazione popolare contro l’occupante. Rachel allora ha 21 anni e studia al College, come quasi tutte ragazze statunitensi della sua età. È conosciuta in città per le sue idee di pace e giustizia e per la sua partecipazione alle iniziative dell’International Solidarity Movement (ISM), nota organizzazione non a scopo di lucro che usa la nonviolenza in difesa del popolo palestinese. La ribellione prende il nome di al-Intifada, che in arabo significa rivolta delle pietre: civili prevalentemente minorenni, armati sì e no di qualche fionda, sfidano a sassate i carri armati dell’esercito invasore. L’ISM fornisce aiuti umanitari e collabora con la resistenza palestinese, ma senza usare violenza, neanche difensiva. Verso la fine del 2002 Rachel ottiene il permesso per recarsi in Palestina in qualità di osservatrice internazionale e a gennaio del 2003 parte per Rafah, una cittadina nella striscia di Gaza abitata prevalentemente da profughi.
Credo che Rafah oggi sia ufficialmente il posto più povero del mondo.
Rafah è a sud di Gaza, verso la fine della striscia e vicino al confine con l’Egitto, zona tenuta particolarmente sotto controllo da Israele, timoroso che gli stati arabi confinanti possano aiutare la resistenza palestinese o anche solo permettere agli abitanti della striscia di aggirare l’assedio.
Qui la ragazza, che viene dalla benestante società statunitense, incontra da vicino la miseria e soprattutto vede con i propri occhi cosa significa vivere quotidianamente sotto occupazione e avere negato l’accesso ai beni di prima necessità.
Adesso l’esercito israeliano è arrivato al punto di distruggere con le ruspe la strada per Gaza, ed entrambi i checkpoint principali sono chiusi. Significa che se un palestinese vuole andare ad iscriversi all’università per il prossimo quadrimestre non può farlo. La gente non può andare al lavoro, mentre chi è rimasto intrappolato dall’altra parte non può tornare a casa; e gli internazionali, che domani dovrebbero essere ad una riunione delle loro organizzazioni in Cisgiordania, non potranno arrivarci in tempo. Probabilmente ce la faremmo a passare se facessimo davvero pesare il nostro privilegio di internazionali dalla pelle bianca, ma correremmo comunque un certo rischio di essere arrestati e deportati, anche se nessuno di noi ha fatto niente di illegale.
La sua esperienza umana e politica è molto profonda e toccante: le è chiaro che lo Stato di Israele sta puntando ormai non all’autodifesa ma a un lento sistematico sterminio dell’intera popolazione palestinese. Da osservatrice dei diritti umani documenta la distruzione delle serre e dei campi da cui migliaia di famiglie traevano sostentamento, la chiusura della strada per Gaza City che lascia la città nel totale isolamento e la chiusura dei pozzi d’acqua necessari ai contadini.
La grande maggioranza della gente qui, anche se avesse i mezzi per fuggire altrove, anche se veramente volesse smetterla di resistere sulla loro terra e andarsene semplicemente (e questo sembra essere uno degli obiettivi meno nefandi di Sharon), non può andarsene. […] Penso che quando la gente viene rinchiusa in un ovile – Gaza – da cui non può uscire, e viene privata di tutti i mezzi di sussistenza, ecco, questo credo che si possa qualificare come genocidio.
Dalle sue lettere si evince l’affetto ricevuto dalle famiglie palestinesi, che condividono volentieri con lei e con i suoi compagni quel poco che resta delle loro abitazioni: oltre agli spari e ai bombardamenti, spesso le rappresaglie israeliane consistono nel demolire le abitazioni dei presunti “terroristi” e delle loro famiglie. Secondo l’ONU e l’UNRWA, “nel 2003, quando Rachel Corrie era a Rafah, gli israeliani distruggevano in media 12 case a settimana; nel 2004 le demolizioni sono arrivate a 100 al mese.”
Dall’inizio di questa intifada, sono state distrutte circa 600 case a Rafah, in gran parte di persone che non avevano alcun rapporto con la resistenza, ma vivevano lungo il confine.
(lettera di Rachel Corrie alla madre, 20 febbraio 2003)
Il 16 marzo del 2003 Rachel Corrie si trova a Rafah insieme ad altri sei compagni dell’ISM. La mano destra impugna un megafono, la sinistra è vuota. Indossa un giubbotto rosso catarifrangente: difficile passare inosservata dall’uomo alla guida del bulldozer che le avanza contro. Dietro di lei sta la casa di Samir Masri (o Samir Nasrallah, a seconda delle fonti), un medico palestinese, ed è proprio quella casa che il mezzo vuole radere al suolo e che gli attivisti difendono. Sono già varie ore che le due parti si fronteggiano, una armata e l’altra no. Una tecnica usata spesso dai membri dell’ISM in casi simili consiste dell’arrampicarsi in piedi sulla montagna di detriti raccolti dal bulldozer fino a costringere l’autista a fermarsi o a cambiare traiettoria. Rachel ha seguito i corsi di formazione teorica e pratica della nonviolenza, è lucida e ha il sangue freddo e sa gestire le situazioni difficili. Da sotto i suoi capelli biondi si fa strada lo sguardo forte e determinato che l’ha sempre accompagnata. In un primo momento è seduta a terra davanti alla casa di quel dottore di Rafah che di certo non è un terrorista; poi si alza e sale sul cumulo di macerie spinto dal veicolo distruttore ed entra nella visuale dell’uomo alla guida. I due si guardano. Ma l’uomo non si ferma e prosegue dritto: Rachel cade, il bulldozer la schiaccia e la copre di terra, poi fa marcia indietro passandole sopra una seconda volta. Non si ferma nemmeno quando accorrono i compagni di Rachel: più importante di una ragazza imprudente è la sicurezza nazionale, ovvero la casa di un medico da demolire. Il resto lo ha fatto la stampa sionista, israeliana e non solo: “morte accidentale” e “comportamento illegale irresponsabile e pericoloso dei dimostranti”. Con queste stesse frasi è stato negato qualunque rimborso alla famiglia. Secondo fonti ufficiali dell’esercito, le operazioni di quel giorno dovevano servire a bonificare l’area da ordigni esplosivi nascosti “che i terroristi erano intenzionati a usare contro soldati e civili israeliani”: inutile dire che di questi ordigni esplosivi non ne è stato ritrovato neanche uno.
In passato ho scritto tanto sulla delusione di scoprire, in qualche misura direttamente, di quanta malignità siamo ancora capaci. Ma è giusto aggiungere, almeno di sfuggita, che sto anche scoprendo una forza straordinaria e una straordinaria capacità elementare dell’essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili – anche di questo non avevo mai fatto esperienza in modo così forte. Credo che la parola giusta sia dignità.
Queste sono le ultime parole scritte da Rachel Corrie.
Oggi a lei e al suo coraggio è dedicata una strada nel centro di Teheran, la capitale iraniana.
In Italia una via che porta il suo nome è presente a Scandiano (RE), vicinissima a via Yassir Arafat, anch’egli noto per le sue battaglie pacifiste e filopalestinesi.
A Roma in sua memoria è stata affissa una targa commemorativa a largo delle Sette Chiese nel quartiere della Garbatella, un mosaico e un cartello spontaneo incollato al muro.
La ragazza è stata inoltre oggetto di omaggio da parte di molti esponenti del mondo della musica e dello spettacolo italiani ed europei (Elisa, Casa del Vento, Alessio Lega, Billy Bragg, Alan Rickman…).
Tra gli altri “amici dei terroristi” (come li chiamano le autorità israeliane) uccisi a Gaza dobbiamo ricordare il giornalista statunitense Tom Harndall e l’italiano Vittorio Arrigoni, anche lui membro dell’ISM noto per gli aiuti umanitari portati tramite la Mezzaluna Rossa e soprattutto per la corrispondenza con il manifesto, quotidiano su cui ha accuratamente testimoniato giorno per giorno l’eccidio del 2008 noto come “Operazione Piombo Fuso”.