Parlare di biopolitica è argomento di scottante attualità.
Il termine, già adoperato a partire dagli anni Venti, diviene oggetto di un vivace dibattito filosofico in seguito all’uso che ne fa Michel Foucault a metà degli anni Settanta.
Per Foucault, il passaggio dall’Ancien régime allo Stato moderno segna la nascita della biopolitica, che è politicizzazione della vita umana.
Infatti, dal potere del sovrano di mettere a morte o lasciare in vita un suddito, si è passati al potere liberale, che avoca a sè il diritto di far vivere e lasciar morire. Esso non mette a morte, ma si incarica di presidiare, risanare ed allungare la vita dei cittadini, attribuendosi compiti di benessere, di sicurezza e di protezione.
La politica, cominciando ad occuparsi degli aspetti, delle condizioni, dei modi in cui si svolge la vita degli individui (ormai vero affare politico), vi fa irruzione esercitando un potere improprio.
Inizia a catalogare, selezionare, regolamentare, gestire, regolare, controllare tutto ciò che riguarda il bios dell’individuo (βίος): salute, igiene, fertilità, natalità, sessualità, mortalità.
L’allevamento umano è accompagnato dall’imbrigliamento della corporeità e della fisicità, dalla separazione in ruoli precisi (dominio maschile, subordinazione femminile) e, soprattutto, dalla definizione di una soglia di normalità cui è bene aderire pena l’emarginazione.
Qui comincia il controllo dei/sui corpi: l’intrusione della biopolitica-Stato in ambiti squisitamente privati.
Accreditata (senza averne titolo) nella sua funzione di controllo dei/sui corpi, da inflessibile sorvegliante, sceglie:
– ruolo di genere cui attenersi;
– chi, come, quando amare (paradigma eterosessuale percepito come normale ed universale);
– quando, come, dove e a quale prezzo abortire;
– chi, come, dove e a quale prezzo si può ricorrere ad una procreazione assistita;
– quando, come, dove morire.
Definiti i contenuti, attraverso gli strumenti istituzionali con cui esercita il potere (istruzione, medicina, informazione, linguaggio, diritto e religione), ripropone tale realtà omologante.
Espropriati dei propri corpi, annullata qualsiasi tipo di autodeterminazione, la vita degli individui viene addomesticata, ricondotta ad una vocazione patriarcale, forgiata in modo da essere funzionale ad un disegno sociale familista, eterosessuale, autoctono, con funzione produttiva e riproduttiva.
Attenzione: non si tratta di non normalizzare una devianza, ma di patologizzare una diversità attraverso l’irreggimentazione, l’esclusione, l’abiezione.
Disertare il proprio ruolo di genere o fare una diversa scelta, anche se libera e consapevole, può risultare una scelta rovinosa. Una integrazione che non sia accompagnata da omologazione viene condannata, incriminata, stigmatizzata, censurata con moralismo e falso perbenismo.
Lo sganciamento della sessualità dalla riproduzione e delle identità di genere dal sesso anatomico, l’interscambiabilità dei ruoli, le tecniche riproduttive artificiali per i non coniugi eterosessuali, rappresentano un vero attentato alla struttura sociale “naturale”.
Un corpo “fuori dalla norma”, non disposto alla mediazione, assume un’importanza nuova: rappresenta una minaccia all’assetto politico neoconservatore.
Inoltre, per effetto di un’ingiunzione alla collaborazione attiva, dal basso v’è un’autoinvestitura del singolo al ruolo di controllore, moralizzatore, diffusore dei valori “imposti”.
Spaventa sapere che, un sistema tette-culo-vagino centripeta, generato da una cultura machista e maschilista, sia alimentato non solo dalle pressioni di gruppi fascistoidi, clericali e reazionari, ma soprattutto da gente comune.
Un buon lavoro di indottrinamento delle masse!
Comportamenti omofobi, sessisti, xenofobi, discriminatori, escludenti, sono ormai naturalizzati, diffusi, radicati. Ormai assuefatti, non generano né sdegno, né disapprovazione, né condanna sociale: occulti, invisibili, irriconoscibili, inosservati, non percepiti come minaccia o attacco alla democrazia. E invece è proprio di questo che si tratta!
Che democrazia è quella che non tiene conto delle differenze, delle minoranze e che fa dipendere da “ragioni” e non da “cause” la supremazia di un gruppo (sociale o etnico) su un altro?
Che democrazia è quella che alle nuove forme di affettività, di relazione, di sessualità attribuisce sì pari dignità ma non eguali diritti?
Che Stato è quello che interviene in un ambito così privato ed intimo come quello dell’autodeterminazione, vigilando su quanto accade nel perimetro del letto di ciascun cittadino, come se si trattasse di un Panopticon,?
Che Stato è quello che, sulla base di supposte norme etiche e valoriali, impone un ordine sociale sessuato, fondamentalista, arenato alle più vetuste gerarchie di ruolo, che imprigiona le donne nel ruolo di moglie-madre?
Che Stato è quello che decide che si è buoni genitori solo se eterosessuali, meglio se coniugati, condannando all’invisibilità altri tipi di famiglie, in egual modo felici e serene?
Che Stato è quello che attribuisce maggiori tutele alla prole di coppie eterosessuali rispetto a quelle omosessuali? Da quale trattato scientifico si evince che l’eterosessualità è sinonimo di buona genitorialità?
Sono da auspicare sane pratiche di resistenza attiva che prevedano la partecipazione alla dimensione pubblica di tutta la società civile per coltivare collettivamente una moderna consapevolezza individuale.
Occorre reinventare un nuovo modo di fare politica, più rispettosa dell’autonomia, della volontà e della libertà di ciascuno, porre fine alla mortificazione della sfera squisitamente privata nei dettami pubblici. Occorre perseguire il superamento della mascolinità e femminilità concepite come categorie socialmente costruite, della teoria di genere, l’abbattimento dei luoghi comuni ma, soprattutto, ridare piena sovranità ai soggetti attraverso l’autodeterminazione, il testamento biologico, il fine vita, la sessualità matura e consenziente.
E’ un discorso culturale che vede coinvolti rappresentanti delle istituzioni politiche e religiose, ma anche attori diversi: giuristi, linguisti, esponenti dell’informazione, dell’istruzione e della formazione, ma soprattutto la famiglia.
La vera forma di emancipazione e ribellione passa sui nostri corpi: unica roccaforte da espugnare.
In gioco non ci sono solo i diritti della comunità LGBTI.
Nell’attesa di questa necessaria ri/evoluzione culturale, io e Manuela mia coniuge oltrealpe, continueremo a vivere la nostra vita da checche lesbiche (l’universo dell’omosessualità femminile è invisibile: se ne nega l’esistenza anche con l’assenza di uno slang dispregiativo ad hoc).
Una vita familiare “diversa”, fatta di bollette da saldare, rata del mutuo da pagare, offerte e promozioni da inseguire al supermercato, biancheria da stirare, briciole sul divano da raccogliere, calzini spaiati da raccogliere in giro per casa, pietanze da preparare, compleanni ed anniversari da festeggiare, incombenze da assolvere, successi da condividere, sconfitte da metabolizzare, ambizioni, sogni, complicità, fedeltà nella buona e cattiva sorte…
Ah, quanta diversità in una famiglia non tradizionale!
“La cultura alla quale apparteniamo, come ogni altra cultura, si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere. L’obiettivo dell’identificazione di un bambino col sesso cui è stato assegnato si raggiunge molto presto, e non ci sono elementi per dedurre che questo complesso fenomeno abbia radici biologiche”.
(Elena Gianini Belotti)